Il buon medico nella storia

Molto spesso, tutti noi, abbiamo avuto bisogno di un medico e probabilmente ci siamo chiesti se fosse un buon professionista sia dal punto di vista medico che relazionale e altrettanto frequentemente ci siamo domandati come dovrebbe essere un buon medico e quali doti sia caratteriali che tecniche dovrebbe avere. 

Questi interrogativi sono gli stessi che i nostri antenati si sono posti fin dall’inizio dell’esercizio dell’arte medica e la storia della medicina ci ha lasciato diversi testi che tracciano il profilo umano e professionale del medico a partire dal giuramenti di Ippocrate.

Ippocrate fu uno dei padri della medicina e lui stesso medico. Visse nell’antica Grecia e contribuì a trasformare la medicina in una scienza basata sull’osservazione e la spiegazione razionale dei fenomeni. Il suo insegnamento fu un fondamento fino al Settecento e ancora oggi i principi enunciati nel celebre “Giuramento” a lui attribuito sono parte integrante del codice etico della professione medica.

Per ippocrate la medicina non si soddisfa in una semplice enumerazione e denominazione di malattie. L’osservazione va sempre associata all’interpretazione dei fenomeni e alla ricerca delle cause. Ippocrate abbraccia una concezione unitaria dell’organismo, alla cui salute contribuiscono tutti gli organi, così come la malattia è un’alterazione dell’equilibrio generale e quindi la terapia deve essere la ricostituzione di uno stato generale di salute.

Più tardi, intorno al V secolo dopo Cristo, è stato trovato un documento che sembra svincolato dalla tradizione ippocratica e nel quale si traccia il profilio del medico ideale.

Nel documento dapprima vengono prese in analisi le qualità individuali del medico, che deve essere “sobrio, modesto, dialogante, gradevole e intelligente” ma più di tutto umile perché l’umiltà riconosce i limiti della persona e del suo sapere e questo è un prerequisito per spingere il medico ad imparare.

Si passa poi alle qualità sociali e relazionale del medico e a come deve costruire il suo rapporto con gli altri. Subito viene messa in evidenza la dirittura morale, i suoi comportamenti devono essere irreprensibili in modo da far onore all’arte medica di cui si fa promotore.

Di seguito nel documento ci si sofferma sulla luce di speranza che il medico deve portare al malato; non si tratta di un gesto gratuito ma di un comportamento che è dettato dalla consapevolezza dell’efficacia delle cure che si stanno adottando.

Da ultimo ci si concentra sulla tecnica medica, ovvero la conoscenza dei segni delle malattie e della varietà delle erbe medicinali che rendono il medico un operarius sanitatis che agendo in modo opportuno libera dallo stato di bisogno.

Il medico non deve essere “esitante o timido, aggressivo o orgoglioso, sdegnoso o lascivo, non deve essere loquace, venale, amante delle donne, ma buon consigliere preparato e casto. Non deve essere né ubriacone né dissoluto né ingannatore né volgare né offensivo né comportarsi in modo disdicevole (…). Poiché l’amore per la sapienza si rivela nei modi, egli si mostri irreprensibile perché è stato chiamato a un grande onore”.

Continuando la carrellata lungo la storia della professione medica arriviamo a Francesco Petrarca, che in un certo qual modo può essere ritenuto un antesignano dei nostri tempi, quasi un anticipatore della legge sul “consenso informato” che pone in relazione la cura e la fiducia tra curato e curante.

Petrarca tra il 1355 e il 1357 raccolse alcune sue epistole in due opere conosciute come “Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientiae aut virtutis” e “Invective contra medicum” scritte in risposta a un medico che curò Papa Clemente VI.

Petrarca nelle sua missive non si scaglia contro tutti i medici ma solo contro quelli che sono inetti (rudes) ed arroganti (procaces). L’invettiva si fa feroce contro quel medico che nasconde con l’eloquenza delle parole l’incapacità di curare, tanto che chi guarisce deve la sua vita al medico e invece a chi non guarisce nulla è dovuto se non che la morte è colpa della natura o del malato; la vita invece è un dono del medico. Non di meno l’autore si scaglia contro i complicati discorsi che il medico fa al paziente che celano i suoi difetti e le sue mancanze in medicina.

Arriviamo poi nel 1509 a Erasmo da Rotterdam che nel suo “Elogio alla Follia”, fa proprio dire alla Follia chi sia il buon medico. Tra le cognizioni scientifiche che per Follia ostacolo la felicità degli uomini, si salva solo la medicina, tanto che il medico da solo vale tanto quanti uomini presi insieme. 

In questa professione la fama migliore la godono, secondo Follia, gli ignoranti, i più audaci e i più incoscienti. L’esercizio della medicina non è che un ramo dell’adulazione e va a braccetto con l’arte dell’eloquenza. 

E’ dunque ironico ciò che afferma Follia ma in alcuni casi non è privo di fondamento.

Per concludere quindi possiamo dire che oggi come allora la ricerca del buon medico e delle sue doti ha appassionato medici, scrittori e filosofi di ogni epoca e che di certo il buon medico debba sposare conoscenza, virtù, capacità, prudenza e morigeratezza. Tutto ciò può apparire ben lontano della medicina moderna, dei nostri tempi, fatta di tecnicismi clinici, di tempi stretti, spesso poco empatica e sbrigativa che non tiene conto del paziente nel suo insieme e delle sue necessità. Però c’è ancora margine per migliorare e soprattutto guardando al passato si scopre come molte tematiche e problemi moderni non siano altro, in realtà, che l’attualizzazione di problemi del passato in chiave moderna. Insomma tutto ritorna!

 

Dott.ssa Veronica Lupi